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Immagine del redattorePro Loco Acquarica del Capo

La leggenda della pila incantata di Pompignano


La pila di Pompignano esposta nell'atrio del Castello Medievale
La pila di Pompignano esposta nell'atrio del Castello Medievale (ph. Antonio Romano, www.salentoacolory.it)

Indice


La pila di Pompignano

La Pila di Pompignano è una grande vasca scolpita da un unico blocco di calcare, con dimensioni di 2,5 metri di lunghezza, 1,3 metri di larghezza, 85 centimetri di profondità e una capacità di circa 9 quintali. Nel 1982, la Pila era abbandonata lungo una strada sterrata vicino a Pompignano, un antico casale di origine romana, presso una cava di tufo. Per evitare danni, il Prof. Carlo Stasi, con il supporto del Comune, la fece trasferire nel cortile del Castello medievale di Acquarica, allora in restauro. Dopo il completamento dei lavori, il 18 agosto 2011, la Pila è stata solennemente restituita alla memoria storica di Acquarica del Capo con una targa commemorativa. Intorno alla Pila, la tradizione popolare ha tessuto diverse storie affascinanti sull'esistenza di tesori nascosti (acchiature), alimentate dai ritrovamenti archeologici nella zona dell'antico casale. Tra queste riportiamo quella di Carmelo Sigliuzzo e dello stesso Carlo Stasi che la salvò dalla distruzione.


La leggenda della pila secondo Carmelo Sigliuzzo

Il Generale presiccese Carmelo Sigliuzzo (1894-1965) nei suoi manoscritti, così racconta la leggenda della pila di Pompignano:

«A mano a mano, i Vescovi baroni avevano ceduto il passo al potentissimo barone di Pompignano, il più antico creato dalla fantasia popolare, che non voleva intrusi. Era il diavolo in persona che abitava nell'altro al di sotto dello Specchiullo ove il mulino incantato, con la sua mula nera, macinava l'oro.

Pazzoidi e maniaci non tardarono a tentare l'impresa di raggiungere la caverna per impossessarsi del vistoso tesoro. Ben noto un mastro presiccese che reclutò un certo numero di operai iniziando lo scavo.

Il banco di carparo siliceo, frammisto a venature tufacee, non cedette neppure alle mine che fecero cilecca. I collaboratori del mastro compresero che col diavolo non c'era da scherzare e abbandonarono l'impresa, reclamando un compenso.

Il mastro tenne duro e rispose:

Vi ho forse promesso una paga giornaliera o un compenso a lavoro ultimato? Se sfonda pago

Anche il mastro, soprannominato "se sfonda pago", dovette infine arrendersi e tornare in paese deriso da tutti i monelli.

L'uomo, che aveva osato cimentarsi col diavolo dello Specchiullo, morì quasi pazzo. Quando passò per il paese il feretro, accompagnato da un solo sacerdote, mancarono al corteo anche i parenti, i quali non vollero avere a che fare col diavolo che aveva punito il temerario.

Dopo questo avvenimento nessuno osò più cimentarsi nell'impresa, ma altri fanatici cercarono di girare posizione lasciando tranquillo il diavolo nella sua caverna incantata per cercare un tesoro che si trovava sotto il gigantesco abbeveratoio conosciuto sotto il nome di pila incantata.

Il lavoro consisteva nello spostare il pesantissimo monolite di notte per rintracciare la buca del tesoro proprio in quelle ore che il diavolo era occupato alla macinatura dell'oro.

In gran segreto, alcuni giovani tentarono l'impresa e dopo aver spostato la pila udirono una flebile voce che diceva:

E mò ca m'hai girata ggirame n'autra fiata!

(e adesso che mi hai girata, girami un'altra volta)

Perplessi ritentarono la prova ma ecco la solita vocina piuttosto scherzosa ripetere:

E mò ca m'hai vutata girame nn'autra fiata!**

(e adesso che mi hai capovolta, girami un'altra volta)

Era il diavolo in persona che si beffava dei piccoli uomini, i quali tentavano di disturbarlo nella sua inviolabile baronia.

I giovani tornarono alle loro case terrorizzati, facendosi il segno della croce che a nulla valse perché tutti furono poi colpiti dalla malaria.

Diavolo barone, diavolo burlone! La sua pila incantata restò sul posto su di un fianco ove quei giovani l'avevano abbandonata tanti anni prima.

Le contadine, attraversando la strada attigua, in prossimità della pila, si facevano il segno della croce».


La leggenda della pila secondo Carlo Stasi

Di seguito riportiamo un breve stralcio della versione della leggenda romanzata dal Prof. Carlo Stasi, che, oltre ad essere una versione alternativa del racconto del Sigliuzzo, può anche essere letta come una sua ideale prosecuzione.

Stasi, prendendo spunto dalle battute narrategli dal padre Salvatore, nel 1982 ha creato una storia articolata creando personaggi di fantasia, come "lu Carlucciu", ed inserendo personaggi realmente esistiti:

«La cosa che più di ogni altra incuriosiva a Pompignano è la Pila. Si tratta di un’enorme vasca utilizzata forse per abbeverare i cavalli (...) Era, tanti anni fa, chissà perché, capovolta, ai piedi di un grande fico.

Un giorno, un contadino, chiamato Carlucciu, stanco del lavoro, ci si sedette sopra usandola anche a mo’ di tavola. (...) Il sole era forte, il caldo soffocante, ma l’ombra del fico, che cadeva proprio sulla pila, lo riparava bene. Mangiava così beatamente, quando sulla pila vide... incisi... dei segni... rimase stupito... con le mani unte di olio ripulì quei segni dalla polvere per vedere meglio ... si, erano proprio dei segni ... degli strani segni!

Cosa significavano?

Un misto di paura e di rispetto gli fecero andare di traverso l’ultimo pezzo di frisa ... pensò che, non sapendo leggere, non gli era concesso di capire altro che come manovrare la zappa, come potare le piante, come prevedere il tempo seguendo i vecchi proverbi dei nonni e dei nonni dei nonni... Pensò che aveva visto altre scritte incise qua e là nelle chiese o su pietre che si diceva fossero «degli antichi»... Ebbe timore si trattasse di una macarìa (stregoneria), per cui si fece il segno della croce, allungò la mano per prendere qualche fico dall’albero, se ne nutrì e riprese a lavorare, pensando che se i morti dovevano essere lasciati in pace lo stesso doveva essere fatto per le cose del passato, morte anch’esse quando non sono utili ai viventi.

Tornato a casa la sera si ricordò della scoperta, e, con un certo orgoglio ingenuo, riferì alla moglie … non l’avesse mai fatto! ... non passò più di un giorno ... ma che dico?... un’ora, che tutto il paese seppe che a Cumpignanu "lu Carlucciu" aveva scoperto delle scritte antichissime, degli uomini antichi.

La voce incuriosì non solo i popolani ma anche e soprattutto i signori. Uno studente di nobile e ricca famiglia si recò subito a vedere l’iscrizione:

IATU A CCI ME OTA

(Beato chi mi volta!)

Girare la pila?!? Enorme com’era avrebbe richiesto non poca fatica!

Lo studente suppose che un così grosso peso potesse essere una ottima protezione per chissà quale tesoro e classificò la cosa tra le tante acchiature (tesori nascosti) che riempivano di curioso timore le popolazioni salentine: grandi tesori nascosti, protetti dai sortilegi più bizzarri, scoperti magari in seguito alla segnalazione avuta in sogno da un folletto dal nome misterioso: lo scazzamurrieddhu.

Tornato in paese lo studente non disse niente a nessuno fuorché a due suoi amici. Si misero d’accordo ed assoldarono per la notte successiva, tre fra i più robusti cavatufi delle locali cave.

La notte era stellata, la luna, tondo lampione sospeso tra gli ulivi, sembrava spiare le creature della notte. Dopo la mezzanotte i sei uomini giunsero con tre cavalli da tiro sul luogo dell’acchiatura.

Legarono solidamente le corde attorno al la pila. I cavalli tirarono ... ma la pila non si mosse! I cavalli i furono frustati... Niente!

Cominciarono a sospettare che la pila non fosse cava come sembrava. Vennero perciò infilati dei paletti, legate altre corde, i tre studenti si misero alle leve, i tre cavatufi, dopo aver frustato a sangue i poveri cavalli si misero anch’essi a tirare funi.

Finalmente la pila si mosse, ma da qui a capovolgerla ce ne voleva ... Con un laborioso sistema di leve, il gruppo iniziò a sollevare su di un fianco la pila ... ma ci vollero ben due ore per capovolgerla: era cava, ma dentro non c'era nessun tesoro! Solo ragnatele, muffe e tanti vermi schifiltosi.

Cominciarono così a scavare coi picconi nella terra sottostante. Ad un certo punto una piccozza urtò contro qualcosa di duro, probabilmente di legno. La frenesia si impossessò degli scavatori. Sembrava che li avesse morsi la tarantola. In poco tempo avevano ripulito quello che si rivelò essere la grossa radice di un fico lì vicino. Con rabbia la spezzarono e proseguirono nello scavo.

Scava e scava, avevano fatto una buca profonda un paio di metri, ma di tesori nemmeno l’ombra!

Intanto il tempo era passato e l’alba stava spuntando verso Acquarica con delle lievi pennellate rosacee frantumate dai rami vibranti degli ulivi. Decisero di proseguire con la speranza che alla luce del sole si potesse vedere meglio.

Erano ormai le sei di mattina e molti carri di chi andava a lavorare nei campi erano già passati; la buca era diventata più profonda, il mucchio di terra estratta accanto ad essa cresceva a perdita d’occhio ... ma di tesori ... neanche a parlarne!

Delusi e stanchi si fermarono per riposarsi un po’. Uno degli studenti, poggiato alla pila, si mise a sfogare la sua delusione sui vermiciattoli che brulicavano nell’interno della pila, li inseguiva con un ramoscello e li schiacciava con rabbia.

(...) Non sapendo più cosa fare, si mise a ripulire l’interno della pila da quel minestrone di vermi, muffe e ragnatele.

Aveva quasi finito quando ... si avvide che, in un angolo interno, c’era qualcosa di inciso: un’altra iscrizione! Chiamò gli altri. Si fece luce con una fiaccola mentre tutti furono presi da una frenesia impaziente e speranzosa. Lesse:

EMMO’ CA M’ITI UTATA

(ed ora che mi avete voltato)

M’AGGIU BBEDDHA DDRAFASCATA

(mi son ben rinfrescata!)

Gli amici si guardarono in faccia, ammutoliti. Lo stupore si trasformò ben presto in delusione, la delusione finì in rabbia, rabbia non solo per non aver trovato nulla, ma soprattutto per essere stati così spudoratamente beffati, dopo tutta quella faticaccia!

Tornarono in paese a mani vuote e, naturalmente, con la velocità del suono, le voci corsero per il paese ed i dintorni.

Lu Carlucciu, da saggio contadino, approfittò di quella profonda buca per piantarci una quercia, che ancor oggi svetta, enorme, accanto alla cappella della Madonna. Se la pila aveva beffato tutti i creduloni, il contadino aveva trasformato a suo vantaggio quella beffa».


Fonti

  • Ruppi Francesca (a cura di), «I manoscritti di Carmelo Sigliuzzo», Vol. 1, Edizioni Grifo, 2010;

  • Stasi Carlo,

    • "Leucasia e Le Due Sorelle - storie e leggende del Salento", Mancarella Editore, Cavallino 2008, 2012;

    • "Acquarica del Capo - La leggenda della pila di Pompignano - The legend of the basin of Pompignano" in “Salento proverbi ricette e culacchi”, a cura di P. Candido e S. Sindaco, Ed. Il Salentino, Melendugno, luglio 2018.

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